Bartolomeo
Perazzini
Non soavese per
natali ma a buon diritto considerato un figlio importante di
questa terra è Bartolomeo Perazzini; abbastanza dimenticato
dagli studiosi anche a causa della naturale modestia che lo
contraddistinse, godette di qualche ricordo in epoche diverse
ma soltanto per alcuni specialisti: un recente convegno ha
riproposto la sua figura poliedrica di ricercatore e di
filologo, trascurando invece quella di musicista e di
filantropo.
Nato a Verona il 6
luglio 1727 da Tommaso e da Maddalena Gemma, entrò nel
Collegio degli Accoliti all'età di quindici anni vestendo
l'abito ecclesiastico; dotato di mente vivace e di
intelligenza pronta, s'applicò con grande dedizione agli studi
classici non trascurando però le altre scienze morali. Si dice
che cosí costante fosse la sua applicazione da danneggiare, in
gioventú, persino la propria
salute.
Ordinato sacerdote
nel 1750, non venne mandato in cura d'anime ma rimase ad
insegnare retorica nel medesimo collegio; durante questo
periodo compose opere musicali le piú note delle quali furono
i Responsori
per la settimana
santa. Fu un bravo insegnante, dotato di straordinarie
capacità filologiche e di grande intelligenza critica e
contribuí a formare nuove menti illuminate. Nove anni piú
tardi arrivò a Soave, dove fece il suo ingresso il 10 giugno,
destinato a reggere le sorti di quella parrocchia: vi restò
sino alla morte lasciando una traccia profonda del suo operato
anche per il lungo ministero esercitato. Già il 7 febbraio
1759 era stato sostituito nella sua funzione di maestro di
retorica da un ex accolito, Don Pietro Perotti. Nel 1758 aveva
tenuto una brillante orazione dove il Perazzini metteva in
mostra tutta la sua straordinaria facondia ricca di
cultura.
Una delle prime
cure cui il Perazzini indirizzò la sua attenzione a Soave fu
l'istituzione di una scuola di canto da chiesa che mantenne
sempre a proprie spese; poi anche un coro di fanciulli.
Estremamente caritatevole e preoccupato dei poveri, esercitò
in favore dei meno fortunati un apostolato attento e legato
anche agli aspetti umani e corporali non trascurando,
ovviamente, di mettere al servizio dei propri parrocchiani la
non trascurabile cultura teologica e le sue doti comunicative:
ben note entrambe, tra l'altro, anche fuori dei confini
parrocchiali. Infatti, fu nominato esaminatore sinodale quando
nel 1782 fu indetto il Concilio Veronese. Le scarse notizie
biografiche - certamente dovute anche alla naturale ritrosia
del Perazzini - tramandano di lui un uomo dal cuore
generosissimo, silenzioso e sostanzialmente dedito a studi
gravi e importanti, ma nient'affatto chiuso in se stesso e con
i propri libri. Si raccontano fatti di grande devozione nei
suoi confronti: lasciò un legato a favore dei poveri della
parrocchia, si dedicò con costanza assoluta alla beneficienza;
divideva con chi non aveva anche i propri vestiti; nel 1796
salvò Soave da una probabile vendetta francese per non
essersi, il paese, arreso prima e per essere stato l'ultimo ad
abbassare dal castello la bandiera di San Marco presentandosi
inerme al generale francese che comandava la piazza;
ugualmente si comportò nel 1798 con Guglielmo di Kerpen,
generale austriaco. Nel 1800, poco prima della sua morte, per
liberare i cittadini soavesi dalla fame, sottoscrisse a nome
proprio dei contratti di pagamento per l'acquisto di grano da
distribuire gratuitamente alle famiglie impegnandosi a pagare
entro un anno (cosa cui il suo successore, Gaetano Cortesi,
ottemperò con esattezza). Stabilí che la propria biblioteca
fosse data al suo amico canonico
Dionisi.
Si spense il 27
novembre 1800 dopo una malattia breve e repentina; lasciò nei
cittadini di Soave un ricordo molto
vivo.
La fama di
Bartolomeo Perazzini - per la verità piuttosto contenuta anche
a causa di una scarsa attenzione - è legata a due grandi
interessi che furono l'occupazione intellettuale della sua
vita oltre alla musica: le opere di S. Zeno e quelle di
Dante.
L'amicizia e la
corrispondenza con Gian Giacomo Dionisi, prefetto della
Biblioteca capitolare, canonico di notevole cultura furono
certamente di grande aiuto al Perazzini, il quale, nel 1773,
dette alle stampe un opuscolo in cui proponeva delle
correzioni all'edizione dei Ballerini sui Sermoni
zenoniani: edizione che egli,
divenuto un esperto filologo e un profondo conoscitore del
santo vescovo veronese, reputò la migliore in senso assoluto
tra quelle sino allora uscite. In questo lavoro, piuttosto
contenuto come pagine ma estremamente profondo come acribia,
il sacerdote soavese propose 256 correzioni contando quelle
piú rilevanti e quelle di minore importanza: ma ciò che piú
conta, egli poneva le basi del suo costante lavoro filologico
che era quello di correggere i testi con le stesse parole
dell'autore andando ad espungere lezioni corrotte,
trascrizioni errate, negligenze forse volute, interpretazioni
arbitrarie. La "solerte negligenza dei critici" come il
Perazzini definiva certe facili letture aveva avallato per
secoli - come succederà per le opere dantesche - corruzioni
testuali in mancanza di seri e profondi studi sui manoscritti.
Due anni piú tardi, sollecitato probabilmente dal Dionisi,
Bartolomeo Perazzini pubblicava un'opera assai piú corposa sui
testi zenoniani con le notevolissime correzioni
dantesche.
Per quanto
concerne i Sermoni,
Perazzini dichiara
d'accettare le proposte di correzione del Maffei, inserisce
una lettera al Dionisi, riprende le osservazioni precedenti su
due trattati di Potamio vescovo di Lisbona del 350 sulla
dottrina ariana e su un'epistola ad Atanasio molto corrotta
nel testo. Passa quindi al testo vero e proprio dell'opera di
Zeno: di esso si occupa sia della correzione sia
dell'interpretazione; secondo un moderno lettore del lavoro
del sacerdote soavese, il Perazzini forní un eccellente e
incomparabile restauro filologico oltreché un prezioso ed
intelligente approfondimento di conoscenza alle questioni
fondamentali della dottrina teologica zenoniana. Delle
osservazioni perazziniane si avvalse il canonico Giuliari per
la sua edizione dei Sermoni del 1783 ("forse
le accolse con totale fiducia") e ne tenne profonda
considerazione il piú moderno e attento curatore del santo
vescovo veronese, quel Löfstedt che restaurò forse
definitivamente il testo zenoniano; scrive l'Orlandi che
nell'edizione critica del 1971, il curatore accolse a volte
nel testo, in ogni caso segnalandole nell'apparato critico,
tutte le osservazioni del modesto e abbastanza oscuro prete
soavese: "segno che egli aveva ragionato con acutezza e con
ragioni non prive di fondamento" anche laddove, al giorno
d'oggi, non appare piú accettabile la sua proposta.
All'indomani del lavoro del Giuliari, un altro filologo molto
noto all'epoca aveva chiaramente espresso giudizi favorevoli
sulla metodologia del Perazzini nonostante i relativamente
modesti mezzi a disposizione: era prevedibile, quindi, e
necessario che tutti gli specialisti facessero i conti con
questo erudito.
Va considerato
pure che, dopo la pubblicazione sui testi zenoniani, il
sacerdote non abbandonò le cure se, com'è accertato, cinque
anni piú tardi scriveva a Girolamo Ballerini chiedendo di
fargli conoscere eventuali ulteriori appunti che fossero
rimasti per potere ristudiare alcuni passi. E certamente, come
accadde per le correzioni dantesche, il Perazzini lasciò
appunti, note e considerazioni per noi irrintracciabili
giacché finite, con moltissima probabilità, tra le carte
passate al Dionisi.
Ma ciò che diede
maggiore lustro al parroco di Soave fu il suo indefesso
lavoro, pieno di rigore filologico e di acribia critica,
intorno alle opere
dell'Alighieri.
Pubblicate nel
1775, quasi in appendice al suo intervento sui
Sermoni
di S. Zeno, le
Correctiones erano frutto di
anni di interesse e prodromi di molti altri interventi.
L'amicizia col Dionisi l'aveva certamente spronato, ma la
capacità interpretativa del Perazzini, anche ad una lettura
attuale, non può rientrare in un'attività di puro supporto al
piú celebrato canonico per il quale, in tempi successivi, si
scomodarono letterati e critici di grande valore. Dotato di
una padronanza assoluta del latino, perspicace lettore di
testi antichi anche se non sempre di manoscritti, Perazzini
esordisce, nella pubblicazione succitata, chiamando a raccolta
i "dantisti" veronesi - un numero alto e di grande valore -
allora presenti nella città scaligera: egli era sicuro che una
scuola cosí agguerrita avrebbe portato straordinari benefici
alla maggiore opera del piú celebre letterato italiano:
l'invito cadde nel vuoto come già era successo a Ludovico
Salvi; ma anche in questo egli dimostrava di essere a
conoscenza dei lavori degli altri; come non dimenticherà
assolutamente nessun critico serio del passato: le sue
correzioni, i suoi suggerimenti nascevano dalla confutazione
di quanto era stato da altri scritto; e cosí espungeva il
Maffei, il Vellutello, il Daniello, il Sibiliati, Rosa
Morando, Becelli, Torelli, Salvi non trascurando neppure
qualcuno ormai dimenticato come quel Giuseppe Tommaselli,
scienziato oggi reputato tra i piú interessanti del secolo
nonostante l'oblio, il quale aveva evidentemente appuntato
alcuni passi oggi per noi
irrintracciabili.
Anche nelle
correzioni apposte alle cantiche successive approfittava della
dedica per spiegare alcune motivazioni dei suoi interventi; a
Zaccaria Betti indirizzava il Purgatorio,
a Giovanni
Pindemonte il Paradiso
con due epistole
di sommo interesse.
È noto che
l'edizione presa in esame dal Perazzini fu quella della Crusca
del 1595 che modificava in parte l'Aldina del 1502: il
sacerdote segnalava i difetti, denunciava gli Accademici di
non avere seguito un metodo critico serio e palese e
approfittava, nell'introduzione alle Correctiones, per fornire
notevoli principi di critica testuale: in seguito, questi
saranno largamente lodati anche se noi oggi ne sentiamo tutti
i limiti. La lectio
difficilior, dal
Perazzini sostenuta con vigore, si basava soprattutto su un
cosiddetto albero genealogico dei testi a penna e, di volta in
volta nelle correzioni, il sacerdote soavese apponeva commenti
e interpretazioni facendo capire come la metodologia dovesse
seguire sempre e costantemente delle regole; ulteriori appunti
egli andava descrivendo come quello di non ritenere degni di
interesse solo quei testi che avevano goduto del commento di
illustri personaggi: tutti i codici andavano esaminati con
uguale acribia e senza preconcetto. Certamente anche per
questo accompagnò Gian Giacomo Dionisi a Firenze nel 1789,
astraendosi per due mesi dalle cure parrocchiali,
sottoponendosi ad un massacrante lavoro di lettura e
ricopiatura di codici danteschi presenti colà e a Lucca. Nel
capoluogo toscano, grazie anche alla notevole perizia
dimostrata, veniva accolto tra i "soci esterni" dell'Accademia
"La
Colombaria" il 14 maggio
1789 assumendo il nome accademico de L'immobile mentre il
Dionisi, nel medesimo giorno, assumeva quello de
Il
costante. Un altro
principio cui il Perazzini si attenne fu quello di non
considerare la
Commedia
come totalmente
slegata dal contesto delle altre opere dell'Alighieri; cosí
egli si cimentò pure col De vulgari
eloquentia discutendone
almeno con il Dionisi, e con le opere minori di Dante. Attento
alla lingua, oltreché alla corretta versione del testo,
Perazzini certamente riscrisse un nuovo e aggiornato testo di
correzioni alla Commedia
(che pare avesse
già quasi concluso)
come hanno
sostenuto i critici che si occuparono della sua fatica
filologica: forse aveva in mente di pubblicare un'edizione
rinnovata; tuttavia di tutte le altre sue imprese sul testo
non rimane piú traccia se non rileggendo le lettere di cui si
è parlato in nota. Qui il "modesto" parroco, con i toni
situati tra una dignitosa compostezza e una moderata
confidenza, dà pareri, confuta letture altrui, compara e
rilegge i versi; con piglio elegante, assolutamente non
trasandato né ridondante com'era invece costume all'epoca,
Perazzini esplora e confida, massimamente al Dionisi, le sue
ricerche. Su una di queste, quasi fosse davvero una
lectio culta,
parla a lungo uno
studioso: trattasi della correzione che il sacerdote fa della
lettura machiavelliana a Inf. XIX 45,
dove restituisce
quella che anche il Petrocchi ritenne corretta e su cui il
critico sopra citato concorda. Gli appunti vergati con mano
sicura da parte del sacerdote soavese sulle lettere - non
esclusivamente dedicate a problemi danteschi o zenoniani ma
sempre con cenni su questi argomenti - sono, nei fatti, un
commento ecdotico cioè di ordine testuale e linguistico piú
che esegetico su parti delle tre cantiche dantesche.
La naturale
ritrosia dell'uomo e dello studioso e la devozione verso il
canonico Dionisi impedirono probabilmente al "modesto" parroco
di campagna di ambire a piú alta considerazione; per cui c'è
chi ritiene che egli sia stato "il piú acuto critico del testo
e dantista del sec. XVIII anche se la sua opera è tuttora
pressoché ignota" o "il piú acuto e profondo studioso
dell'Alighieri che Verona contasse nel secolo XVIII" e che il
Dionisi abbia attinto a piene mani dalle note perazziniane
avanzando l'ipotesi che il canonico si sia servito anche degli
appunti stesi dal sacerdote soavese cosí com'erano; ci fu chi
ritenne l'opera del Perazzini degna di alta considerazione e
che gli nocque, sotto questo aspetto, il legame troppo stretto
con il Dionisi; al di là di queste affermazioni, sulle quali
non possiamo certamente intervenire, rimane comunque
l'immagine di un dantista a tutto tondo, iniziatore di un
metodo critico da tutti riconosciuto e autore - per quel che
si conosce - di un ottimo lavoro a favore del maggiore poeta
italiano. Come precursore della filologia moderna viene
ricordato nell'Enciclopedia
dantesca, come punto di riferimento per i critici
successivi lo esaltò il Giuliari. Lo consegnò ai posteri
un'iscrizione funebre apposta nella sacrestia di San Lorenzo
in Soave dettata nientemeno che dal
Cesari.
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