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Soave Romana

Il territorio di Soave in età romana

Alfredo Buonopane


Attraversato dalla via Postumia e inserito, almeno nella sua parte occidentale, in un importante intervento di delimitazione agraria (centuriazione), il territorio di Soave si trovava in una posizione geografica particolarmente adatta a favorirne, in età romana, un fitto popolamento e un notevole sviluppo economico.
Purtroppo, sia per un certo disinteresse nei confronti del patrimonio storico della propria terra, disinteresse che portò alla distruzione o alla dispersione dei materiali che ripetutamente riaffioravano, sia per la mancanza di puntuali ricerche condotte sul terreno, la documentazione relativa all'età romana risulta piuttosto sporadica e frammentaria. È quindi impossibile, per l'obiettiva mancanza di dati, ricostruire dettagliatamente le vicende storiche di questo comprensorio, anche se è lecito supporre che esse, almeno nelle linee fondamentali, non si siano discostate da quelle di Verona, la città capoluogo, e del territorio che da questa dipendeva.
Se contatti commerciali e forse anche politici fra i Romani e le popolazioni locali non dovettero mancare già agli inizi del II secolo a.C., il momento fondamentale per la romanizzazione di quest'area fu indubbiamente rappresentato dalla costruzione della via Postumia, che, realizzata nel 148 a.C. su iniziativa del console Spurio Postumio Albino, collegava con lunghi rettifili le due città di Genova e di Aquileia. La costruzione della grande arteria, che ricalcava con ogni probabilità alcuni tracciati che in epoca preromana collegavano in area veneta insediamenti di un qualche rilievo, come Vicenza, Oderzo e Concordia, comportò, infatti, in un territorio non ancora romanizzato, ma forse già gravitante nell'orbita dello stato romano come una sorta di "protettorato", l'esproprio di terre, l'instaurazione di servitú viarie, l'afflusso dall'esterno di maestranze, la presenza di guarnigioni militari.
Inoltre, anche se la sua costruzione fu dettata da scopi essenzialmente militari, in quanto si trattava di una "strada di arroccamento" , atta a favorire gli spostamenti rapidi delle truppe lungo la pianura padana, la via Postumia, proprio per il fatto che poneva in collegamento fra loro non solo due importanti città portuali come Genova e Aquileia, ma anche abitati di rilievo come Piacenza, Cremona, Verona, Vicenza, Oderzo e Concordia, si affermò in breve come uno dei piú importanti assi stradali dell'Italia settentrionale, rivestendo un ruolo primario negli scambi commerciali e culturali e divenendo di fatto uno dei principali strumenti della romanizzazione di questi territori.
Il tratto stradale tra Verona e Vicenza assunse poi una particolare importanza a partire dalla fine del III secolo d.C., quando divenne parte integrante della grande via che univa Milano ad Aquileia e da qui all'Oriente: tale ruolo è confermato dalla menzione nell'Itinerarium Antonini, una raccolta dei percorsi che si articolavano in tutto l'impero romano attribuita tra la fine del III secolo d.C. e la prima metà del IV d.C., nell'Itinerarium Burdigalense, una descrizione dell'itinerario da seguire per raggiungere la Palestina da Burdigala (Bordeaux) e per il ritorno fino a Milano, attribuita al 340-350 d.C. e, infine, nella Tabula Peutingeriana, una carta pittorica del mondo antico e della sua rete stradale, copia medievale di un documento risalente probabilmente al IV secolo d.C.


La via Postumia e il territorio di Soave

L'identificazione del tratto della via Postumia che univa Verona a Vicenza, attraversando il territorio di Soave, è tuttora oggetto di viva discussione. Due sono, infatti, le ipotesi formulate: la prima, che gode di maggior favore, suppone l'esistenza di un percorso in pianura, caratterizzato da lunghi rettifili e coincidente in sostanza con l'attuale SS 11; uscita dall'odierno abitato di San Martino B.A., la strada toccava Strà di Caldiero, toponimo in cui sopravvive il termine strata (strada), nelle cui vicinanze, all'altezza della località "Posta Vecchia", toponimo anche questo non privo di suggestioni, doveva trovarsi un punto di sosta e di cambio dei cavalli, la mutatio Cadiano, che, nell'Itinerarium Burdigalense è collocata a X miglia da Verona. Oltrepassata Caldiero la Postumia, tenendosi ai piedi delle colline, poco piú a nord dell'attuale statale, entrava nel territorio di Soave, dove toccava le odierne località di Crociera Pilastro e San Lorenzo di Soave, per spingersi poi nel territorio vicentino, raggiungendo Masòn e proseguendo poi fino a Vicenza con un percorso che doveva coincidere con l'attuale statale.
La seconda ipotesi suppone invece l'esistenza di un percorso "alto", che sarebbe stato suggerito, se non imposto, dall'instabilità idrografica della pianura, dove frequenti erano i fenomeni di impaludamento. Subito dopo San Martino B.A. la via Postumia piegava decisamente verso le colline in direzione di Colognola ai Colli, seguendo il tracciato di una strada ancora oggi in uso, toccando le odierne località di "Ponte di Settimo" e di "la Decima" che, nel loro nome, potrebbero conservare il ricordo del passaggio di una strada romana. Raggiunta Colognola ai Colli, la strada proseguiva per Orgnano e San Vittore, e da qui fino a Soave e a Monteforte d'Alpone, per giungere poi a Masòn e proseguire per Vicenza.
Questa ipotesi trova il suo maggiore ostacolo nel fatto che si tratta di un percorso tortuoso e con numerosi saliscendi e che presenta, quindi, difficoltà logistiche tali da renderlo poco adatto a quelle esigenze militari di spostamenti veloci e diretti, che portarono alla costruzione della via Postumia e che sono testimoniate dai lunghi rettifili che quasi ovunque caratterizzano il tracciato della via. A questo si deve aggiungere il fatto che la distanza di XXXIII miglia, pari a km 48,84, indicata dall'Itinerarium Antonini e dalla Tabula Peutingeriana fra Verona e Vicenza, trova riscontro solo supponendo un percorso grosso modo coincidente con la SS 11. In realtà tutti gli elementi addotti a favore di un percorso "alto" della via Postumia in quest'area non appaiono determinanti: l'esistenza dei due toponimi Ponte di Settimo e "la Decima" può avere, come ho detto poc'anzi, altre spiegazioni, mentre il rinvenimento di alcuni miliari nei pressi di Colognola ai Colli, non è determinante, dato che nessuno di loro è stato rinvenuto nel luogo di originaria collocazione, ma che, probabilmente, furono trasportati nella zona di Colognola ai Colli tra il Seicento e il Settecento, per ornare assieme ad altre antichità le chiese e le ville patrizie. Infine le conoscenze dei Romani nel campo dell'ingegneria stradale erano tali da consentire loro il superamento di terreni disagevoli sotto l'aspetto idrografico, ricorrendo all'innalzamento di argini di protezione o di terrapieni su cui far passare la strada, come è stato dimostrato da un recente studio della via che collegava la Postumia con Este (la cosiddetta strada "Porcilana").
Con questo non si vuole escludere l'esistenza di una strada "alta", da non confondersi però con la via consolare: poteva trattarsi di un percorso, risalente ancora all'età preromana, che metteva in collegamento insediamenti di una qualche consistenza e che, in caso di necessità, poteva rappresentare una meno agevole alternativa rispetto al percorso in pianura. Piú remota appare invece la possibilità che tale strada sia stata realizzata in epoca tardoantica.
Indubbiamente la presenza di una cosí articolata rete viaria non può che aver favorito lo sviluppo del territorio di Soave, facilitando il suo collegamento con due centri di primaria importanza come Verona e Vicenza e inserendolo attivamente nell'ambito di una direttrice che collegava la pianura padana con i principali porti dell'Adriatico.


La centuriazione e l'assetto territoriale

A un periodo attribuito agli anni compresi fra la calata dei Cimbri nella pianura padana (102-101 a.C.) e quelli successivi alla concessione del diritto latino agli abitanti delle regioni a nord del Po (89 a.C.) o agli ultimi decenni del I secolo a.C., risale un grande intervento di centuriazione, la particolare operazione di delimitazione, suddivisione in lotti (centuriae) dei terreni e successiva assegnazione a coloni, in base a uno schema reticolare tracciato con complesse procedure dagli agrimensori romani. Tale operazione interessò, a oriente di Verona, un'ampia area, attraversata dalla via Postumia e compresa fra San Martino Buonalbergo ad ovest e lo spartiacque fra Chiampo e Alpone ad est, fra Monti Lessini a nord e fiume Adige a sud. Questa centuriazione aveva un reticolo formato da lotti quadrati di 20 actus (m 710 circa) per lato, con un orientamento nord-est/sud-ovest di 4°30', atto a far sì che le maglie formate dall'incrocio dei cardini e dei decumani, ovvero gli assi nord-sud ed est-ovest della delimitazione, fossero disposte in modo da favorire, sfruttando la naturale pendenza del terreno, il deflusso delle acque. Il cardine massimo, l'asse principale della centuriazione, molto probabilmente era costituito dalla direttrice Illasi-Stra di Caldiero, mentre il decumano massimo potrebbe aver ricalcato il percorso Progno di Mezzane-Progni-San Zeno. Nel territorio di Soave tracce dell'antica delimitazione sono state identificate nei pressi della località "la Carcera", tra San Vittore e Soave, tra il Monte Bissone e il colle di Soave, testimonianze che sono anche avvalorate dall'esistenza, nell'area immediatamente a sud-est di Monte Bissone, del toponimo "Crociera Pilastro", che nella sua composizione conserva il ricordo sia dell'incrocio di un cardine con un decumano sia del cippo che tali incroci contrassegnava. Sempre nel campo della toponomastica significativa, ma non del tutto sicura, potrebbe essere la testimonianza rappresentata dall'esistenza nei pressi di Borgo Bassano, di una strada detta "Carantiga", il cui nome è una corruzione della forma latina callis antiqua.
Tale tipo di organizzazione del territorio portò inevitabilmente allo sviluppo di un modello insediativo caratterizzato, almeno nella fase iniziale, da notevole parcellizzazione della proprietà e da abitazioni sparse, secondo una tendenza che recenti indagini hanno dimostrato come caratteristica di gran parte dell'area veneta e che, in questo territorio, appare confermato anche dai ritrovamenti di tombe isolate o appartenenti a singoli nuclei familiari. Questo assetto territoriale, inoltre, se pure ha ostacolato, in linea generale, l'affermarsi del latifondo, non deve però aver impedito il formarsi di proprietà medio-grandi, caratterizzate dalla presenza di aziende agricole (le ville "urbano-rustiche"), articolate in una parte residenziale e in un settore produttivo. A qualche impianto di questo tipo credo si possano riferire i resti di un edificio con pavimenti a mosaico bianco, messi in luce e successivamente distrutti nel corso di lavori agricoli, sul versante di Monte Bissone e, forse, il grande deposito di mattoni romani, segnalato in località Fornello e ora disperso, che piú che essere pertinente ad una fornace per la produzione di laterizi, dovrebbe probabilmente costituire quanto resta della copertura di un edificio di notevoli dimensioni.
All'esistenza di qualche grande proprietà, appartenente a esponenti dell'élite di Verona romana, si potrebbe collegare poi sia la presenza di alcuni membri della gens Vitoria, dei quali si dirà piú avanti, sia la menzione, su un'iscrizione proveniente da Soave, dello schiavo di un L. Hostilius, di nome Vicarius, che forse faceva parte di una familia rustica, la forza lavoro impiegata prevalentemente nell'ambito delle grandi tenute agricole.
Mancano invece documentazioni relative alla presenza delle unità territoriali e amministrative piú ridotte, pagi o vici, e nessun fondamento ha, purtroppo, l'ipotesi, cara agli eruditi locali del passato, che il centro attuale di Soave fosse in età romana un pagus. Va anche sottolineato, però, il fatto che il rinvenimento di necropoli piuttosto estese, tanto immediatamente a sud della SS 11, nelle vicinanze di Castelletto, quanto lungo il pendio settentrionale di Borgo Bassano, fa ragionevolmente pensare all'esistenza di qualche insediamento di una certa consistenza, il cui nome non ci è giunto.


Economia e società

Pur nel totale silenzio delle fonti è lecito supporre che il paesaggio agrario di questo comprensorio fosse non molto dissimile da quello del resto dell'Italia settentrionale, cosí come lo descrivono numerosi autori antichi. Nella parte centuriata doveva prevalere un'agricoltura di tipo intensivo, con la produzione sia di cereali, in particolare il frumento, la spelta, il miglio, l'orzo, l'avena, la segale, sia di legumi, soprattutto fave e lenticchie. Non doveva mancare, come oggi, lo sfruttamento degli alberi da frutto, in particolare il melo, il pero, il ciliegio, il noce, il melograno, il nespolo, il melo-cotogno, e un posto fondamentale doveva essere occupato dalla vite, la cui coltura vantava in tutto il territorio veronese una lunga, consolidata e affermata tradizione, tanto che alcuni vini veronesi, noti col nome di vina Raetica, forse prodotti anche nel territorio di Soave, giungevano fino alle mense della casa imperiale.
Non si può neppure escludere che nelle aree pedemontane meglio esposte al sole, si coltivasse, proprio come avviene oggi, l'olivo: doveva trattarsi in ogni modo di una coltivazione in scala ridotta, che mirava piú che altro a soddisfare il fabbisogno interno di olio.
Nelle zone piú umide della fascia pianeggiante si coltivava quasi certamente il lino, di cui nell'antichità si sfruttavano non solo il gambo per ottenerne la fibra tessile, ma anche i semi come alimento e come medicinale: infatti un'iscrizione rinvenuta nella vicina Colognola ai Colli ricorda che due operai addetti alla lavorazione del lino (lintiones) eressero a loro spese un edificio di notevoli dimensioni in onore di Apollo.
Nelle zone collinari non interessate dalla centuriazione, dove si estendevano i boschi di acero macchiato, i querceti, i faggeti e i castagneti, particolare importanza aveva l'"economia della selva", che si articolava in una vasta serie di attività: allevamento brado dei suini, favorito dall'abbondanza di ghiande, caccia, raccolta di legna da ardere, di frutti spontanei, di bacche, di funghi, di erbe commestibili o officinali.
Praticato era pure, specie nelle aree piú idonee, l'allevamento degli ovini, che doveva dar vita non solo alle fiorenti attività artigianali, se non industriali, ad esso connesse, per le quali il territorio veronese era noto nell'antichità, ma che poteva interessare in modo particolare questo comprensorio con il fenomeno della transumanza.
Quest'ultima potrebbe essere documentata dall'esistenza presso la località di Borgo Bassano dell'odonimo "Carantiga", derivato da callis antiqua, cui si accennava poc'anzi: infatti il vocabolo callis indica solitamente le piste percorse dalle greggi nelle loro migrazioni stagionali.
Purtroppo non piú verificabile, troppo generica e, nel complesso, poco fondata è la notizia, risalente alla fine dell'Ottocento, che a occidente del Monte Bissone, in località Fornello, fossero stati rinvenuti i resti di una fornace.


La società

Anche se poco numerose, le iscrizioni rinvenute nel territorio di Soave, forniscono tuttavia qualche interessante dato sulla composizione della società. Libero di nascita e quindi cittadino romano a pieno diritto, nonché appartenente a una famiglia di antica origine venetica, ben documentata nella Cisalpina orientale, era il L. Hostilius che per sé e per il suo schiavo Vicarius fece erigere il monumento funerario per disposizione testamentaria, come ricorda una semplice stele, proveniente da Soave e databile ai primi anni del I secolo d.C..
Difficile appurare, per l'estrema frammentarietà del monumento (una stele funeraria rinvenuta in contrada San Lorenzo e attribuibile alla prima metà del I secolo a.C.) lo stato sociale di un individuo del quale si conserva solo il cognome Menop[hilus]: trattandosi di un cognome di origine greca si potrebbe supporre che si tratti di schiavo emancipato (liberto) o di uno schiavo.


Una famiglia di notabili locali: i Vitorii

Una stele di grandi dimensioni, della quale sopravvive oggi solo un ampio frammento conservato presso il Museo Archeologico del Teatro Romano di Verona, ma che fu vista integra nel XV secolo nella chiesa di San Martino nel castello di Soave, ricorda alcuni membri della gens Vitoria, che, grazie al raggiunto benessere economico, entrarono nell'élite municipale della città di Verona.
Eccone il testo:
V(ivi) f(ecerunt) / L(ucius) Vitorius L(uci) f(ilius) Festus, / Q(uintus) Vitorius L(uci) f(ilius) Severus,/ VI viri aug(ustales), sibi et / Cassiae Sex(ti) f(iliae) Maxim[ae], [Cominiae L(uci) f(iliae) Festae, / Catiae M(arci) f(iliae) Secundae, / uxoribus, et / L(ucio) Vitorio L(uci) f(ilio) Feroc(i), / C(aio) Vitorio L(uci) f(ilio) Festo, / Q(uinto) Vitorio Q(uinti) f(ilio) Festo, / filiis, VI viris augustalibus].
"Lucio Vitorio Festo, figlio di Lucio, (e) Quinto Vitorio Severo, figlio di Lucio, seviri augustali, fecero (realizzare questo monumento sepolcrale), mentre erano ancora in vita, per sé e per Cassia Massima, figlia di Sesto, Cominia Festa, figlia di Lucio, (e) Cazia Seconda, figlia di Marco, loro mogli, e per Lucio Vitorio Feroce, figlio di Lucio, Gaio Vitorio Festo, figlio di Lucio, e Quinto Vitorio Festo, figlio di Quinto, loro figli, seviri augustali".
Grazie a questa iscrizione e a un'altra, oggi murata nel campanile della chiesa parrocchiale di San Bonifacio, si può cosí ricostruire lo stemma di questo importante nucleo familiare:
Si tratta, quindi, di due fratelli, liberi di nascita (ingenui), figli di un L. Vitorius, non altrimenti noto, e di una Iuventia, appartenente a una famiglia documentata nella vicina Colognola ai Colli e menzionata insieme ai figli nella già ricordata iscrizione di San Bonifacio; il primo di essi, L. Vitorius Festus, dopo aver sposato in prime nozze una Cassia Maxima, si sposò poi con una Cominia Festa, dalla quale ebbe due figli maschi, mentre il secondo, Q. Vitorius Severus, si uní a una Catia Secunda, dalla quale ebbe un figlio maschio.
La lapide offre numerosi spunti di riflessione: in primo luogo tutti i maschi della famiglia fecero parte, nella vicina Verona, del collegio dei seviri augustali, un'associazione che si occupava essenzialmente del culto imperiale, i cui membri erano scelti fra persone di notevoli disponibilità economiche, dato che non solo al momento della nomina bisognava versare, a garanzia del proprio operato, una consistente somma in denaro (summa honoraria), ma bisognava inoltre dar spesso prova di munificenza nei confronti della collettività, organizzando a proprie spese banchetti, sacrifici, giochi, donazioni per la realizzazione di opere pubbliche. In cambio, tale honos documentava presso i concittadini un raggiunto prestigio sociale, che si manifestava anche con il permesso di rivestire la toga orlata di porpora, di esser preceduti in pubblico da due littori, di avere il privilegio, tipico dei magistrati, della sedia pieghevole in legno e avorio (sella curulis). Nel nostro caso l'ascesa sociale della famiglia appare ben consolidata, anche se, probabilmente, non si registrarono nel tempo ulteriori avanzamenti: infatti i figli furono sì, come i genitori, seviri augustali, ma, almeno a quanto è dato sapere, non rivestirono poi altri incarichi politico-amministrativi in ambito cittadino. Degni di nota sono pure, come accennavo poc'anzi, i matrimoni contratti dai due fratelli: L. Vitorius Festus sposò dapprima una donna appartenente alla gens Cassia, una delle piú illustri famiglie veronesi, i cui membri avevano rivestito importanti cariche in ambito locale e nazionale; in seguito, presumibilmente dopo la morte della prima moglie, contrasse un secondo matrimonio, forse meno significativo sul piano sociale, in quanto la gens Cominia è scarsamente attestata a Verona e nel Veronese e non sembra aver rivestito un ruolo economico o sociale di un qualche peso. Il fratello sposò un'appartenente alla gens Catia, ben documentata a Verona e nell'agro, che fra i suoi membri annoverava anche un esponente del mondo imprenditoriale e un seviro augustale, e che nei pressi di Soave doveva avere dei possedimenti fondiari, come documenterebbe il toponimo di origine prediale Cazzano.
La presenza dei Vitorii nell'area di Soave è indubbiamente legata all'esistenza nella zona di qualche fondo di proprietà della famiglia, dato che era tendenza degli appartenenti a questi gruppi sociali investire nell'acquisto di proprietà terriere i proventi derivati da altre attività economiche, in particolare il commercio. E credo che sia indicativo, al riguardo, il fatto che i due fratelli, insieme alla madre, sciolgano un voto a Mercurio, che proprio delle attività mercantili era il protettore, come si legge sul piú volte menzionato altare di San Bonifacio:
Mercurio / L(ucius) Vitorius Festus, / Q(uintus) Vitorius Severus, / Iuventia, mater, / v(otum) s(olverunt) l(ibentes) m(erito).
"A Mercurio. Lucio Vitorio Festo, Quinto Vitorio Severo (e) Iuvenzia, (loro) madre, sciolsero il voto volentieri e meritatamente".


La religione

Nessuna testimonianza abbiamo sulle divinità venerate in questa zona in epoca romana. È perciò di particolare interesse un dato offerto dalla toponomastica: nel settore nordoccidentale del territorio di Soave, nei pressi della località di Castelcerino, è documentato un "Vajo delle Anguane", toponimo nel quale sopravvivono, con tutta probabilità, tracce di antichi culti indigeni. Le Anguane, infatti, favolose creature delle montagne venete, traggono il loro nome dalle *Aquanae, un termine ricostruito dai linguisti97 con cui si definiscono alcune divinità che in epoca preromana presiedevano alle acque e al loro uso, divinità che con la romanizzazione furono sostituite per lo piú dalle Nymphae e dalle Lymphae, il cui culto è vivo in aree contigue al territorio qui considerato.
Maggiori notizie, anche se spesso non verificabili, abbiamo riguardo al culto dei morti. Nel territorio di Soave è attestata quasi esclusivamente la cremazione che nel mondo romano, e in particolare nell'Europa occidentale, fu ampiamente praticata durante gran parte dell'età repubblicana e almeno fino alla prima metà del II secolo d.C., quando la diffusione di mode provenienti dal mondo orientale e un diverso atteggiamento psicologico nei confronti della sepoltura riportarono in auge il rito dell'inumazione. La pratica della cremazione è attestata sia nelle vaste necropoli scoperte a Castelletto e a Borgo Bassano sia nelle tombe isolate rinvenute a Contrada Carniga/Cerniga e a Colombara San Lorenzo. Per quanto riguarda invece l'inumazione, l'unica testimonianza potrebbe essere rappresentata dal sarcofago a cassa, che in epoca imprecisabile venne reimpiegato come vasca battesimale nella chiesa parrocchiale di Castelcerino.
Il rituale funerario non si distacca da quello noto per l'Italia settentrionale: le ceneri del defunto, raccolte in un'urna, venivano deposte nella sepoltura accompagnate da un corredo la cui composizione variava in quantità e qualità in base alle condizioni economiche e sociali del defunto; dalle notizie che ci sono giunte si ponevano nelle sepolture balsamari e vasetti in vetro, piatti in ceramica e oggetti da toeletta, cui si aggiungeva la moneta che serviva per pagare il viaggio ultraterreno (il cosiddetto "obolo di Caronte") e una lucerna, dall'evidente valore simbolico. È questo il caso delle tombe rinvenute nella necropoli di Castelletto, della sepoltura scoperta in Contrada Carniga/Cerniga e, soprattutto, di quella messa in luce a Colombara San Lorenzo: qui nei primi anni del Novecento, eseguendo uno scasso per l'impianto di un filare di viti, apparve una tomba a cassa parzialmente scavata nella roccia, con un corredo particolarmente ricco e appartenente ad una donna di agiata condizione. Era costituito infatti da una patera in bronzo argentato, da uno specchio anch'esso in bronzo argentato, da numerosi balsamari e altri vasetti in vetro, da parecchi anellini in bronzo e da una moneta, che venne attribuita al I secolo d.C.; fra gli oggetti del corredo furono rinvenute anche due cerniere in ferro e alcuni chiodi in ferro anch'essi, appartenenti ai resti del letto in legno impiegato per deporre la defunta sul rogo. Sempre a personaggi di rango doveva appartenere la tomba a camera, con pareti ornate da affreschi, fra i quali spiccava una figura femminile resa con colori assai vivaci, forse il ritratto di una defunta, segnalata fra le sepolture della necropoli di Borgo Bassano e oggi, malauguratamente, non piú rintracciabile. Può essere interessante ricordare che l'affresco, ritenuto una raffigurazione della Vergine Maria, fu oggetto di viva devozione popolare, finché non deperí completamente.

Articolo tratto da "Soave, terra amenissima, villa suavissima"


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